CAPITOLO
DUE
L'INCONTRO
CON I NUOVI COMPAGNI
Quella
notte il sonno di Marco non fu dei più tranquilli. Dopo avere stentato ad
addormentarsi, si era svegliato spesso e ogni volta il pensiero che gli si
affacciava alla mente era sempre il medesimo: come sarebbe andato il primo
giorno nella nuova scuola, per di più ad anno scolastico già iniziato? Perché,
si chiedeva, si stava preoccupando? I suoi genitori avevano sicuramente ragione:
non avrebbe incontrato alcun problema, eppure non era facile per lui affrontare
il cambiamento. Che ci poteva fare? Marco era così: davanti alle novità si
faceva sorprendere dal panico e dall’ansia. Passato il momento critico, il più
delle volte si rendeva conto di essersi preoccupato eccessivamente, ma era più
forte di lui e ci ricadeva. Avrebbe voluto che non si facesse mai giorno e che
il momento dello scontro con la nuova realtà giungesse il più tardi possibile,
ma allo stesso tempo non vedeva l’ora di arrivare al dunque. “Via il
dente, via il dolore” amava ripetergli la mamma quando lo vedeva in ansia
e Marco sapeva che la donna aveva ragione. Tuttavia, se era facile pensarlo e
dirlo, metterlo in pratica era tutt’altra cosa.
Verso mattina, finalmente, Marco riuscì ad addormentarsi di un sonno profondo e
senza sogni, ma dopo un po’ si sentì scuotere con una certa energia.
— Sveglia, bell’addormentato! È ora di andare a scuola! — lo esortò la
mamma scaraventandolo giù dal letto. Dopo una notte come quella, Marco si
sentiva gli occhi pesanti come un macigno e avrebbe continuato a sonnecchiare
molto volentieri, ma la madre fu irremovibile e non ci fu verso di corromperla.
— Ci devo andare proprio oggi? — tentò di obiettare il ragazzo al termine
di una svogliatissima prima colazione — Non posso aspettare ancora un paio di
giorni?
Mamma Luisa non volle sentire ragioni e lo spinse a bordo della sua vecchia e
adorata Citroën Dyane arancione che si mise in moto e partì con lo stesso
sprint di un centenario asmatico.
— Quanto durerà ancora questo povero e vecchio catorcio? — si chiedeva la
donna ogni volta che girava la chiave d’accensione, ma cambiare la vecchia e
gloriosa Dyane non era solo un problema di soldi. Il fatto è che mamma Luisa
era affezionata all’antidiluviana carretta e la considerava quasi come una
persona di famiglia. Era stata di suo padre che gliel’aveva ceduta quando,
sentendosi ormai un po’ troppo in là con gli anni, aveva finalmente deciso di
rinunciare alla guida, ed ora era il mezzo di servizio della famiglia Montagna.
Non che l’auto principale, una vecchia station wagon Volvo, fosse molto più
recente, ma entro pochi anni la Dyane arancione sarebbe stata sicuramente
annoverata tra le auto d’epoca. Per il momento, tuttavia, era solo un vecchio
e asmatico catorcio.
Il tratto di strada davanti alla nuova scuola di Marco era intasato di macchine
in sosta, per lo più di grossa cilindrata, e fu quasi per miracolo che mamma
Luisa riuscì a parcheggiare la Dyane nell’esiguo spazio tra due ingombranti
fuoristrada.
— Ma guarda un po’! — commentò una signora minuta ed elegante,
arrampicandosi a bordo di uno dei due grossi automezzi — Mio nonno ne aveva
una uguale trent’anni fa!
Scendendo dal catorcio, mamma Luisa le sorrise, ma dopo averla squadrata da capo
a piedi, l’altra donna mise in moto e sgommò via veloce. Mamma Luisa non ci
fece caso e si incamminò verso l’ingresso tenendo Marco per mano.
Anche se il tratto di strada davanti alla scuola brulicava di tante altre
madri e di tanti altri figli, il ragazzo si sentì addosso gli sguardi di tutti.
Gli sembrò che guardassero soprattutto sua madre e si rese conto che nessuna
tra le signore presenti vestiva come lei. Mamma Luisa, infatti, indossava una
gonna lunga a fiori dal vago stile zingaresco, sulla quale portava un maglione
peruviano di lana grezza dal collo alto, ricoperto da un largo scialle dai
vivaci colori, per non parlare della gran massa riccia, rossa e crespa dei
capelli che difficilmente passava inosservata.
“Perché la guardano così?” si chiese Marco, notando qualche sorrisetto.
Mamma Luisa era sicuramente la donna più bella del mondo, lo diceva spesso
anche papà, tuttavia il ragazzo non leggeva ammirazione in quegli sguardi, bensì
un vago accenno di derisione. Che cos’aveva la mamma che non andava?
— Ora ti lascio, in bocca al lupo! — gli augurò lei chinandosi e
andandosene tra le occhiate dei presenti, dopo avergli stampato un sonoro bacio
sulla guancia.
Marco s’incamminò verso la gradinata che permetteva l’accesso
all’edificio scolastico, ingombra di ragazzi che attendevano il suono della
prima campanella. Si rese conto solo allora che anche il suo abbigliamento era
diverso. Gli altri ragazzi, infatti, indossavano scarpe da ginnastica di grandi
marche, giacche a vento e jeans alla moda, senza contare gli zainetti firmati,
coloratissimi e zeppi di scritte, pupazzetti ed ammennicoli* vari. Marco,
invece, portava una pesante giacca di lana grezza dai colori smorti, dotata di
cappuccio e lacciuoli di pelle al posto di cerniere e asole per i bottoni. Sotto
la giacca indossava camicia a scacchi e salopette di jeans e aveva sulle spalle
uno zainetto di canapa grezza ornato da disegni geometrici colorati con quattro
tonalità diverse del blu e dell’azzurro. Giacca e zainetto provenivano dal
lontano Nepal, dove ogni tanto il padre si recava per acquistare all’ingrosso
articoli etnici da rivendere ai mercatini. Era in tal modo, infatti, che i
genitori di Marco si guadagnavano da vivere.
— Ehi, tu, “Sorcio”! Non è ancora
carnevale, lo sai? — lo apostrofò un ragazzo robusto che lo
sopravanzava di almeno una spanna, sbarrandogli il passo con aria spavalda. —
Da dove salti fuori, “Sorcio”? Sei nuovo? — gli chiese, mentre
altri due coetanei gli si mettevano accanto ridendo.
— Sì, sono nuovo... — annuì Marco, che davanti a quel terzetto provava una
vaga sensazione di disagio.
— Sei uno zingaro, “Sorcio”? — gli chiese quello che dei tre
sembrava il capoccia.
— No, perché? — chiese a sua volta Marco, cercando di aggirarlo, ma
inutilmente, poiché l’altro continuava a sbarrargli la strada.
— Se non sei uno zingaro, perché ti vesti a quel modo? — lo irrise il
ragazzo, suscitando i sogghigni degli altri due, ai quali si era aggiunta nel
frattempo una ragazza vestita con indumenti di almeno due taglie più grandi
della sua e i jeans che le scendevano sui fianchi lasciando scoperto
l’ombelico e l’elastico delle mutande, nonché qualche rotolino di ciccia.
— Già, perché ti sei conciato così, eh, “Sorcio”? — ribadì la
nuova venuta. — Anche tua madre sembrava una zingara!
— Noi qui non vogliamo zingari, hai capito? — dichiarò il ragazzo che gli
aveva sbarrato il passo.
— Io non sono uno zingaro! — si difese Marco, chiedendosi perché mai quegli
energumeni ce l’avessero con gli zingari e, soprattutto, perché ce
l’avessero con lui.
— E allora perché ti vesti a quel modo? — lo derise la ragazza.
Nella scuola frequentata fino a qualche giorno prima, nessuno aveva mai avuto
niente da dire sull’abbigliamento di Marco. Anzi, non era l’unico ad
indossare indumenti che non avevano niente a che fare con la moda corrente. Se
era strano il suo modo di vestire, si chiese, come si poteva definire quello
della ragazza che lo squadrava con un sorrisetto ironico sulle labbra, con tutte
quelle catene che le pendevano dal giubbetto e quella specie di cartucciera
metallica che portava sui fianchi?
— Hai perso la parola, “Sorcio”? — lo apostrofò il ragazzo.
Marco l’aveva persa davvero, poiché non sapeva che cosa rispondere e come
affrontare una situazione del tutto nuova per lui. Perché quei quattro ragazzi
erano così aggressivi? Nella scuola da cui proveniva ci si comportava in modo
ben diverso con i nuovi allievi, che venivano festeggiati e messi subito a loro
agio.
— Io non mi chiamo “Sorcio”! — protestò debolmente.
— Ah, no? — gli chiese il ragazzo inarcando un sopracciglio e guardandolo
dall’alto in basso. — E come ti chiami, allora?
— Già, come ti chiami, “Sorcio”? — gli fecero eco gli altri tre.
Con il cuore che batteva, Marco cercò di lasciarli perdere. Aveva capito che
non era il caso di mettersi a discutere con quei quattro energumeni, ma appena
si mosse, il gruppetto lo circondò obbligandolo a fermarsi.
— Allora non ci vuoi proprio dire come ti chiami, “Sorcio”? —
continuò il più alto dei quattro.
— Mi chiamo Marco Montagna... — mormorò Marco.
— Marco Montagna che puzza di fogna! — esclamò pronto il ragazzo,
suscitando le risate sguaiate dei compagni.
— Marco Montagna che puzza di fogna! — ripeté la ragazza scompisciandosi
dal gran ridere. — Come ti vengono in mente?
— Eh, modestia a parte, sono un poeta! — rispose il compagno, mentre gli
altri due maschi continuavano a ripetere ridendo e cantilenando “Marco
Montagna che puzza di fogna, Marco Montagna che puzza di fogna!”
Non era per niente un buon inizio, pensò Marco. Avrebbe preferito un impatto
diverso con la nuova scuola e si augurò con tutto il cuore che lo sguaiato
quartetto non appartenesse alla classe alla quale era stato assegnato.
— In che classe ti hanno messo, “Marco Montagna che puzza di fogna”?
— gli domandarono, come se gli avessero letto nel pensiero.
— In che classe vuoi che l’abbiano messo? — sghignazzò uno di loro —
Sicuramente in quella degli scemi!
— Allora è nella nostra! — esclamò la ragazza suscitando le risate degli
altri tre.
— In seconda “C”... — rispose Marco, sperando che qualcosa o qualcuno
interrompesse al più presto la spiacevole conversazione.
— In seconda “C”? — esclamò uno dei tre ragazzi. — No, non è
possibile! Uno come te in seconda “C” non lo vogliamo!
Marco si rese conto che i propri timori erano fondati: che gli piacesse o no, i
quattro bulletti sarebbero stati tra i suoi nuovi compagni di classe.
— E perché no? — protestò quello che sembrava il capo. — Benvenuto in
seconda “C”, “Marco Montagna che puzza di fogna”! Ci divertiremo
un mondo con lui, non credete, ragazzi?
— Già, non ci avevamo pensato! — ammise la ragazza.
— Che bello! Abbiamo un nuovo “giocattolo”! — esclamò il ragazzo
più alto.
— Già, proprio un bel bambolotto! — commentò la ragazza facendo il
ganascino a Marco e stringendogli la guancia fino a fargli male.
— Lasciatelo in pace! — esclamò un’altra ragazza, alta e robusta,
intromettendosi nel gruppo e afferrando Marco per un braccio.
— Ehi, Michela, di che t’impicci? — l’apostrofò quello che sembrava il
capo del quartetto.
— Non badare a Corrado! È solo uno sbruffone! — disse a Marco la ragazza
trascinandolo via.
— Sì, e tu sei l’avvocato delle cause perse! — le rispose quello che
doveva essere Corrado.
— Io sono Michela e tu, se non ho capito male, ti chiami Marco Montagna — si
presentò la ragazza allontanando il nuovo compagno dal gruppetto degli
energumeni. Per un istante Marco pensò che Michela facesse seguire al suo nome
l’ignobile rima inventata da Corrado.
— Ho sentito che verrai in classe con noi — gli disse lei, invece,
prendendolo a braccetto e portandolo all’interno dell’edificio, mentre la
campanella suonava. — Vedrai che ti troverai bene. Non è vero che siamo la
classe degli scemi. Qualche scemo c’è, è vero! Il più scemo di tutti è
Corrado che tu hai già conosciuto, ma più scema ancora è Carlotta, che si
crede la sua ragazza e lo spalleggia. Gli altri due, Diego e Valerio,
considerano Corrado il loro idolo, ma sono solo due stupidotti che da soli non
sarebbero in grado nemmeno di soffiarsi il naso.
“Meno male che non sono tutti come loro” pensò Marco, mentre la compagna lo
guidava al secondo piano dell’edificio scolastico.
— Ecco, questa è la nostra aula — gli annunciò dopo averlo condotto lungo
un interminabile corridoio sul quale si affacciavano le porte delle varie
classi. — Non devi farti mettere sotto i piedi da Corrado e compagni — lo
mise in guardia invitandolo ad entrare nell’aula. — Fatti rispettare, sono
solo dei fanfaroni. Per prenderli in giro io li chiamo la “Banda
Bassotti”!
“È una parola...” pensò Marco, mentre la compagna gli indicava un banco
libero.
— Ma tu, scusa, ti vesti sempre così? — gli chiese la ragazza, che sembrava
morire dalla voglia di chiederglielo.
— Sì, perché? Che cosa c’è che non va? — replicò Marco.
— Niente, niente! Per lo meno sei originale! — sorrise Michela andando a
sedersi, mentre anche gli altri compagni facevano il loro ingresso nell’aula.
(...)
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