2
LA NUOVA SCUOLA
Il tratto di strada davanti alla nuova scuola di
Marco era intasato di macchine in sosta, per lo più di grossa cilindrata, e fu
quasi per miracolo che mamma Luisa riuscì a parcheggiare la vetturetta
nell’esiguo spazio tra due ingombranti fuoristrada.
— Ma guarda un po’! — commentò una signora minuta
ed elegante, arrampicandosi a bordo di uno dei due grossi automezzi — Mio nonno
ne aveva una uguale quarant'anni fa!
Scendendo dal catorcio mamma Luisa le sorrise, ma
dopo averla squadrata da capo a piedi, l’altra donna mise in moto e sgommò via
veloce. Mamma Luisa non ci fece caso e s'incamminò verso l’ingresso tenendo
Marco per mano.
Anche se il tratto di strada davanti alla scuola
brulicava di tante altre madri e di tanti altri figli, il ragazzo si sentì
addosso gli sguardi di tutti. Gli sembrò che guardassero soprattutto sua madre e
si rese conto che nessuna tra le signore presenti, quasi tutte eleganti, vestiva
come lei, che era stata assunta con un contratto a termine dall'azienda comunale
di igiene ambientale e aveva addosso l'uniforme che le era stata fornita per il
lavoro, una goffa tuta giallo-blu. Per non parlare della gran massa riccia,
rossa e crespa dei capelli che difficilmente passava inosservata, mentre la
maggior parte delle signore presenti davanti alla scuola sembravano appena
uscite dal parrucchiere.
“Perché la guardano così?” si chiese Marco, notando
qualche sorrisetto. Mamma Luisa era sicuramente la donna più bella del mondo, lo
diceva spesso anche papà, tuttavia il ragazzo non leggeva ammirazione in quegli
sguardi, bensì un vago accenno di derisione. Cos’aveva la mamma che non andava?
— Ora ti lascio, in bocca al lupo! — gli augurò
lei, chinandosi e andandosene tra le occhiate dei presenti, dopo avergli
stampato un sonoro bacio sulla guancia.
Marco s’incamminò verso la gradinata che permetteva
l’accesso all’edificio scolastico, ingombra di ragazzi che attendevano il suono
della prima campanella. Si rese conto solo allora che anche il suo abbigliamento
era diverso. Gli altri ragazzi, infatti, indossavano scarpe da ginnastica di
grandi marche, giacche a vento e jeans alla moda, senza contare gli zainetti
firmati, coloratissimi e zeppi di scritte, pupazzetti e ammennicoli vari. Marco,
invece, portava una giacca a vento che cominciava ormai a stargli stretta e
corta, tanto che le maniche gli finivano ben più su dei polsi e la cerniera che
gliela chiudeva sul petto era così tesa che sembrava doversi schiudere da un
momento all'all'altro. Già, perché Marco Montagna, crescendo, negli ultimi tempi
era diventato anche un po' cicciottello e avrebbe avuto bisogno di un cambio
completo del guardaroba, ma le finanze di casa Montagna erano quello che erano,
e mamma Luisa aveva sentenziato che mancava poco alla primavera e non valeva la
pena di acquistargli una giacca nuova, soprattutto perché sarebbe sicuramente
cresciuto ancora e per pochi mesi sarebbero stati soldi buttati. La donna doveva
avere fatto lo stesso ragionamento anche per i jeans, perché lasciavano scoperte
le caviglie e solo le scarpe da ginnastica che Marco indossava sembravano su
misura, anche se dovevano essere state acquistate a buon mercato in una
bancarella, perché portavano in evidenza un logo che era solo una goffa
imitazione di quello di una marca di gran moda.
Per completare il quadro, lo zainetto che il
ragazzo portava sulle spalle era lo stesso che gli avevano comprato quando
frequentava la classe quarta della scuola primaria, e se allora era nuovo
fiammante e alla moda, in seconda media aveva ormai su di sé gli impietosi segni
del tempo.
— Ehi, tu, Sorcio! Da dove salti
fuori? — lo apostrofò un ragazzo robusto che lo sopravanzava di almeno
una spanna, sbarrandogli il passo con aria spavalda. — Sei nuovo? — gli chiese,
mentre altri due coetanei gli si mettevano accanto ridendo.
— Sì, sono nuovo... — annuì Marco, che davanti a
quel terzetto provava una vaga sensazione di disagio.
— Sei uno zingaro, Sorcio? — gli chiese quello che
dei tre sembrava il capoccia.
— No, perché? — chiese a sua volta Marco, cercando
di aggirarlo, ma inutilmente, poiché l’altro continuava a sbarrargli la strada.
— Se non sei uno zingaro, perché ti vesti a quel
modo? — lo irrise il ragazzo, suscitando i sogghigni degli altri due, ai quali
si era aggiunta nel frattempo una ragazza che indossava un paio di jeans tutti
strappati sulle gambe e che, nonostante non fosse molto caldo, le scendevano sui
fianchi lasciando scoperto l’ombelico e l’elastico delle mutandine, nonché
qualche rotolino di ciccia.
— Noi qui non vogliamo zingari, hai capito? —
dichiarò il ragazzo che gli aveva sbarrato il passo.
— Io non sono uno zingaro! — si difese Marco,
chiedendosi perché mai quegli energumeni ce l’avessero con lui.
— Perché ti sei conciato così se non sei uno
zingaro, eh, Sorcio? — intervenne la ragazza.
Nella scuola frequentata fino a qualche giorno
prima, nessuno aveva mai avuto niente da ridire sull’abbigliamento di Marco. Con
la maggior parte dei compagni si conoscevano fin dalla scuola primaria ed erano
molto affiatati; inoltre erano perfettamente a conoscenza delle sue difficoltà
economiche, lo rispettavano e non si sarebbero mai permessi di prenderlo in giro
se i suoi indumenti non erano alla moda. Nel nuovo istituto, però, era diverso e
se ne rendeva conto in quel momento: nessuno lo conosceva e tantomeno era al
corrente dei suoi problemi familiari. Lui lo sapeva benissimo che da quando si
era verificata la “catastrofe” le condizioni precarie di mamma e papà si
riflettevano su tutti gli aspetti della sua esistenza, anche nel modo di
vestire, specialmente in quel periodo in cui il suo corpo sembrava avesse deciso
improvvisamente di crescere e per stare al passo con il suo sviluppo fisico
avrebbero dovuto rinnovargli completamente il guardaroba ogni due o tre mesi.
— Hai perso la parola, Sorcio? — lo incalzò il
ragazzo.
Marco l’aveva persa davvero, poiché non sapeva cosa
rispondere e come affrontare una situazione del tutto nuova per lui. Perché quei
quattro ragazzi erano così aggressivi? Non era colpa sua se era vestito male,
perché si divertivano a prenderlo in giro?
— Io non mi chiamo Sorcio! — protestò debolmente
— Ah, no? — gli chiese il ragazzo, inarcando un
sopracciglio e guardandolo dall’alto in basso. — E come ti chiami, allora?
— Già, come ti chiami? — gli fecero eco gli altri
tre. Con il cuore che batteva, Marco cercò di lasciarli perdere. Aveva capito
che non era il caso di mettersi a discutere con quei quattro energumeni, ma
appena si mosse, il gruppetto lo circondò, obbligandolo a fermarsi.
— Allora non ci vuoi proprio dire come ti chiami,
Sorcio? — continuò il più alto dei quattro.
— Mi chiamo Marco... Marco Montagna... — mormorò il
ragazzo.
— Marco Montagna che puzza di fogna! — esclamò
pronto l'altro, suscitando le risate sguaiate dei compagni.
— “Marco Montagna che puzza di fogna!” — ripeté la
ragazza, scoppiando a ridere. — Come ti vengono in mente?
— Eh, modestia a parte, sono un poeta! — rispose il
compagno, mentre gli altri due maschi continuavano a ripetere ridendo e
cantilenando “Marco Montagna che puzza di fogna, Marco Montagna che puzza di
fogna!”
Non era per niente un buon inizio, pensò Marco.
Avrebbe preferito un impatto diverso con la nuova scuola e si augurò con tutto
il cuore che lo sguaiato quartetto non appartenesse alla classe alla quale era
stato assegnato.
— In che classe ti hanno messo, “Marco Montagna che
puzza di fogna”? — gli domandarono, come se gli avessero letto nel pensiero.
— In che classe vuoi che l’abbiano messo?
Sicuramente in quella degli scemi!— sghignazzò uno di loro.
— Allora è nella nostra! — esclamò la ragazza,
suscitando le risate degli altri tre.
— In seconda C... — rispose Marco, sperando che
qualcosa o qualcuno interrompesse al più presto la spiacevole conversazione.
— In seconda C? No, non è possibile! Uno come te in
seconda C non lo vogliamo! — esclamò uno dei tre ragazzi.
— E perché no? — protestò quello che sembrava il
capo. — Benvenuto in seconda C, “Marco Montagna che puzza di fogna”! Ci
divertiremo un mondo con lui, non credete, ragazzi?
— Già, non ci avevamo pensato! — ammise la ragazza.
— Che bello! Abbiamo un nuovo giocattolo! — esclamò
il ragazzo più alto.
— Già, proprio un bel bambolotto! — commentò la
ragazza, facendo il ganascino a Marco e stringendogli la guancia fino a fargli
male.
— Lasciatelo in pace! — esclamò un’altra ragazza,
alta e robusta, intromettendosi nel gruppo e afferrando Marco per un braccio.
— Ehi, Michela, di che t’impicci? — l’apostrofò
quello che sembrava il capo del quartetto.
— Non badare a Corrado! È solo uno sbruffone! —
disse a Marco la ragazza trascinandolo via.
— Sì, e tu sei l’avvocato delle cause perse! — le
rispose quello che doveva essere Corrado.
— Io sono Michela e tu, se non ho capito male, ti
chiami Marco Montagna — si presentò la ragazza, allontanando il nuovo compagno
dal gruppetto degli energumeni. Per un istante Marco pensò che Michela facesse
seguire al suo nome e cognome l’ignobile rima inventata da Corrado.
— Ho sentito che verrai in classe con noi — gli
disse lei invece, e al suono della campanella lo prese sottobraccio e lo
condusse all’interno dell’edificio. — Vedrai che ti troverai bene. Non è vero
che siamo la classe degli scemi. Qualche scemo c’è, è vero! Il più scemo di
tutti è Corrado che hai già conosciuto, ma più scema ancora è Carlotta, che si
crede la sua ragazza e lo spalleggia. Gli altri due, Diego e Valerio,
considerano Corrado il loro idolo, ma sono solo due imbranati che da soli non
sarebbero in grado nemmeno di soffiarsi il naso.
“Meno male che non sono tutti come loro” pensò
Marco, mentre la compagna lo guidava al secondo piano dell’edificio scolastico.
— Ecco, questa è la nostra aula — gli annunciò,
dopo averlo condotto lungo un interminabile corridoio sul quale si affacciavano
le porte delle varie classi. — Non devi farti mettere sotto i piedi da Corrado e
compagni. Fatti rispettare, sono solo dei fanfaroni. Per prenderli in giro io li
chiamo la “Banda Bassotti”!
“È una parola...” pensò Marco, mentre la compagna
gli indicava un banco libero.
(...)
Torna
a Narrativa per Ragazzi
|