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Da "Io, spasso dei bulli" di Beppe Forti, Edizioni "Il Rubino" - Napoli  2019

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LA NUOVA SCUOLA
 

Il tratto di strada davanti alla nuova scuola di Marco era intasato di macchine in sosta, per lo più di grossa cilindrata, e fu quasi per miracolo che mamma Luisa riuscì a parcheggiare la vetturetta nell’esiguo spazio tra due ingombranti fuoristrada.
Ma guarda un po’! — commentò una signora minuta ed elegante, arrampicandosi a bordo di uno dei due grossi automezzi — Mio nonno ne aveva una uguale quarant'anni fa!
Scendendo dal catorcio mamma Luisa le sorrise, ma dopo averla squadrata da capo a piedi, l’altra donna mise in moto e sgommò via veloce. Mamma Luisa non ci fece caso e s'incamminò verso l’ingresso tenendo Marco per mano.
Anche se il tratto di strada davanti alla scuola brulicava di tante altre madri e di tanti altri figli, il ragazzo si sentì addosso gli sguardi di tutti. Gli sembrò che guardassero soprattutto sua madre e si rese conto che nessuna tra le signore presenti, quasi tutte eleganti, vestiva come lei, che era stata assunta con un contratto a termine dall'azienda comunale di igiene ambientale e aveva addosso l'uniforme che le era stata fornita per il lavoro, una goffa tuta giallo-blu. Per non parlare della gran massa riccia, rossa e crespa dei capelli che difficilmente passava inosservata, mentre la maggior parte delle signore presenti davanti alla scuola sembravano appena uscite dal parrucchiere.
Perché la guardano così?” si chiese Marco, notando qualche sorrisetto. Mamma Luisa era sicuramente la donna più bella del mondo, lo diceva spesso anche papà, tuttavia il ragazzo non leggeva ammirazione in quegli sguardi, bensì un vago accenno di derisione. Cos’aveva la mamma che non andava?
Ora ti lascio, in bocca al lupo! — gli augurò lei, chinandosi e andandosene tra le occhiate dei presenti, dopo avergli stampato un sonoro bacio sulla guancia.
Marco s’incamminò verso la gradinata che permetteva l’accesso all’edificio scolastico, ingombra di ragazzi che attendevano il suono della prima campanella. Si rese conto solo allora che anche il suo abbigliamento era diverso. Gli altri ragazzi, infatti, indossavano scarpe da ginnastica di grandi marche, giacche a vento e jeans alla moda, senza contare gli zainetti firmati, coloratissimi e zeppi di scritte, pupazzetti e ammennicoli vari. Marco, invece, portava una giacca a vento che cominciava ormai a stargli stretta e corta, tanto che le maniche gli finivano ben più su dei polsi e la cerniera che gliela chiudeva sul petto era così tesa che sembrava doversi schiudere da un momento all'all'altro. Già, perché Marco Montagna, crescendo, negli ultimi tempi era diventato anche un po' cicciottello e avrebbe avuto bisogno di un cambio completo del guardaroba, ma le finanze di casa Montagna erano quello che erano, e mamma Luisa aveva sentenziato che mancava poco alla primavera e non valeva la pena di acquistargli una giacca nuova, soprattutto perché sarebbe sicuramente cresciuto ancora e per pochi mesi sarebbero stati soldi buttati. La donna doveva avere fatto lo stesso ragionamento anche per i jeans, perché lasciavano scoperte le caviglie e solo le scarpe da ginnastica che Marco indossava sembravano su misura, anche se dovevano essere state acquistate a buon mercato in una bancarella, perché portavano in evidenza un logo che era solo una goffa imitazione di quello di una marca di gran moda.
Per completare il quadro, lo zainetto che il ragazzo portava sulle spalle era lo stesso che gli avevano comprato quando frequentava la classe quarta della scuola primaria, e se allora era nuovo fiammante e alla moda, in seconda media aveva ormai su di sé gli impietosi segni del tempo.
Ehi, tu, Sorcio! Da dove salti fuori? — lo apostrofò un ragazzo robusto che lo sopravanzava di almeno una spanna, sbarrandogli il passo con aria spavalda. — Sei nuovo? — gli chiese, mentre altri due coetanei gli si mettevano accanto ridendo.
Sì, sono nuovo... — annuì Marco, che davanti a quel terzetto provava una vaga sensazione di disagio.
Sei uno zingaro, Sorcio? — gli chiese quello che dei tre sembrava il capoccia.
No, perché? — chiese a sua volta Marco, cercando di aggirarlo, ma inutilmente, poiché l’altro continuava a sbarrargli la strada.
Se non sei uno zingaro, perché ti vesti a quel modo? — lo irrise il ragazzo, suscitando i sogghigni degli altri due, ai quali si era aggiunta nel frattempo una ragazza che indossava un paio di jeans tutti strappati sulle gambe e che, nonostante non fosse molto caldo, le scendevano sui fianchi lasciando scoperto l’ombelico e l’elastico delle mutandine, nonché qualche rotolino di ciccia.
Noi qui non vogliamo zingari, hai capito? — dichiarò il ragazzo che gli aveva sbarrato il passo.
Io non sono uno zingaro! — si difese Marco, chiedendosi perché mai quegli energumeni ce l’avessero con lui.
Perché ti sei conciato così se non sei uno zingaro, eh, Sorcio? — intervenne la ragazza.
Nella scuola frequentata fino a qualche giorno prima, nessuno aveva mai avuto niente da ridire sull’abbigliamento di Marco. Con la maggior parte dei compagni si conoscevano fin dalla scuola primaria ed erano molto affiatati; inoltre erano perfettamente a conoscenza delle sue difficoltà economiche, lo rispettavano e non si sarebbero mai permessi di prenderlo in giro se i suoi indumenti non erano alla moda. Nel nuovo istituto, però, era diverso e se ne rendeva conto in quel momento: nessuno lo conosceva e tantomeno era al corrente dei suoi problemi familiari. Lui lo sapeva benissimo che da quando si era verificata la “catastrofe” le condizioni precarie di mamma e papà si riflettevano su tutti gli aspetti della sua esistenza, anche nel modo di vestire, specialmente in quel periodo in cui il suo corpo sembrava avesse deciso improvvisamente di crescere e per stare al passo con il suo sviluppo fisico avrebbero dovuto rinnovargli completamente il guardaroba ogni due o tre mesi.
Hai perso la parola, Sorcio? — lo incalzò il ragazzo.
Marco l’aveva persa davvero, poiché non sapeva cosa rispondere e come affrontare una situazione del tutto nuova per lui. Perché quei quattro ragazzi erano così aggressivi? Non era colpa sua se era vestito male, perché si divertivano a prenderlo in giro?
Io non mi chiamo Sorcio! — protestò debolmente
Ah, no? — gli chiese il ragazzo, inarcando un sopracciglio e guardandolo dall’alto in basso. — E come ti chiami, allora?
Già, come ti chiami? — gli fecero eco gli altri tre. Con il cuore che batteva, Marco cercò di lasciarli perdere. Aveva capito che non era il caso di mettersi a discutere con quei quattro energumeni, ma appena si mosse, il gruppetto lo circondò, obbligandolo a fermarsi.
Allora non ci vuoi proprio dire come ti chiami, Sorcio? — continuò il più alto dei quattro.
Mi chiamo Marco... Marco Montagna... — mormorò il ragazzo.
Marco Montagna che puzza di fogna! — esclamò pronto l'altro, suscitando le risate sguaiate dei compagni.
— “Marco Montagna che puzza di fogna!” — ripeté la ragazza, scoppiando a ridere. — Come ti vengono in mente?
Eh, modestia a parte, sono un poeta! — rispose il compagno, mentre gli altri due maschi continuavano a ripetere ridendo e cantilenando “Marco Montagna che puzza di fogna, Marco Montagna che puzza di fogna!”
Non era per niente un buon inizio, pensò Marco. Avrebbe preferito un impatto diverso con la nuova scuola e si augurò con tutto il cuore che lo sguaiato quartetto non appartenesse alla classe alla quale era stato assegnato.
In che classe ti hanno messo, “Marco Montagna che puzza di fogna”? — gli domandarono, come se gli avessero letto nel pensiero.
In che classe vuoi che l’abbiano messo? Sicuramente in quella degli scemi!— sghignazzò uno di loro.
Allora è nella nostra! — esclamò la ragazza, suscitando le risate degli altri tre.
In seconda C... — rispose Marco, sperando che qualcosa o qualcuno interrompesse al più presto la spiacevole conversazione.
In seconda C? No, non è possibile! Uno come te in seconda C non lo vogliamo! — esclamò uno dei tre ragazzi.
E perché no? — protestò quello che sembrava il capo. — Benvenuto in seconda C, “Marco Montagna che puzza di fogna”! Ci divertiremo un mondo con lui, non credete, ragazzi?
Già, non ci avevamo pensato! — ammise la ragazza.
Che bello! Abbiamo un nuovo giocattolo! — esclamò il ragazzo più alto.
Già, proprio un bel bambolotto! — commentò la ragazza, facendo il ganascino a Marco e stringendogli la guancia fino a fargli male.
Lasciatelo in pace! — esclamò un’altra ragazza, alta e robusta, intromettendosi nel gruppo e afferrando Marco per un braccio.
Ehi, Michela, di che t’impicci? — l’apostrofò quello che sembrava il capo del quartetto.
Non badare a Corrado! È solo uno sbruffone! — disse a Marco la ragazza trascinandolo via.
Sì, e tu sei l’avvocato delle cause perse! — le rispose quello che doveva essere Corrado.
Io sono Michela e tu, se non ho capito male, ti chiami Marco Montagna — si presentò la ragazza, allontanando il nuovo compagno dal gruppetto degli energumeni. Per un istante Marco pensò che Michela facesse seguire al suo nome e cognome l’ignobile rima inventata da Corrado.
Ho sentito che verrai in classe con noi — gli disse lei invece, e al suono della campanella lo prese sottobraccio e lo condusse all’interno dell’edificio. — Vedrai che ti troverai bene. Non è vero che siamo la classe degli scemi. Qualche scemo c’è, è vero! Il più scemo di tutti è Corrado che hai già conosciuto, ma più scema ancora è Carlotta, che si crede la sua ragazza e lo spalleggia. Gli altri due, Diego e Valerio, considerano Corrado il loro idolo, ma sono solo due imbranati che da soli non sarebbero in grado nemmeno di soffiarsi il naso.
Meno male che non sono tutti come loro” pensò Marco, mentre la compagna lo guidava al secondo piano dell’edificio scolastico.
Ecco, questa è la nostra aula — gli annunciò, dopo averlo condotto lungo un interminabile corridoio sul quale si affacciavano le porte delle varie classi. — Non devi farti mettere sotto i piedi da Corrado e compagni. Fatti rispettare, sono solo dei fanfaroni. Per prenderli in giro io li chiamo la “Banda Bassotti”!
È una parola...” pensò Marco, mentre la compagna gli indicava un banco libero.

(...)

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