CAPITOLO
UNO
Enrico
La
mamma di Enrico spalancò senza tante cerimonie la porta della stanza e Valentina
sussultò spaventata, ma il ragazzo non ci fece caso: era abituato alle irruzioni
improvvise della madre.
— Avete finito di fare i compiti? — chiese la donna.
— Ancora cinque minuti, signora — rispose Valentina.
— Non c’è tempo. Giù c’è il padre di Enrico che lo aspetta — annunciò
sbrigativamente la donna. La sua espressione era quella di sempre quando aveva a
che fare con l’ex marito. Lo sguardo corrucciato e i muscoli contratti del
volto, infatti, esprimevano un misto di insofferenza e di ostilità, ma nei
confronti di chi? si chiedeva Enrico. Ogni volta che il padre si faceva vivo per
venirlo a prendere, era difficile per il ragazzo non dubitare che la mamma ce
l’avesse anche con lui. Cosa avrebbe dovuto fare? Rifiutarsi di incontrarlo?
Era pur sempre suo padre, anche se la mamma, ormai, sembrava odiarlo.
— Vuoi più bene alla mamma o al papà? — era la domanda stupida che,
quand’era piccolo, gli rivolgeva qualche parente o qualche amico dei genitori,
convinto d’essere originale e spiritoso.
— A tutti e due! — rispondeva senza esitare il piccolo Enrico e la risposta
non avrebbe potuto essere diversa anche ora che era alto ben oltre un metro e
settanta, frequentava la terza media e aveva appena compiuto quattordici anni.
La cosa difficile, tuttavia, era farlo capire proprio a mamma e papà che un anno
prima se l’erano cantata di santa ragione senza alcun pudore, incuranti della
sua presenza.
Quella sera il padre se n’era andato sbattendo la porta, aveva passato la
notte chissà dove e il giorno dopo la madre aveva chiamato un fabbro. La sera
successiva, al suo rientro, papà aveva trovato la serratura cambiata e si era
messo a tempestare di pugni la porta d’ingresso, urlando alla moglie di farlo
entrare. Pure essendo già alto, all’epoca, quasi un metro e sessanta, Enrico
era corso in camera sua e aveva nascosto la testa sotto il cuscino piangendo
come una fontana. Che cos’era successo a papà e mamma? Perché gli sfuggivano e
sembravano essersi del tutto dimenticati della sua presenza, tutti intenti
com’erano a sbranarsi a vicenda?
Che vergogna quella sera! I vicini, spaventati, avevano chiamato la polizia.
Enrico l’aveva intuito sentendo la sirena da lontano. Invece di tornare a
farsi inghiottire dal caotico traffico cittadino, l’intensità di quel suono
lacerante era aumentata fino a spegnersi del tutto proprio sotto casa sua.
— Da questa parte! — aveva urlato qualcuno da una finestra e poco dopo erano
cessati anche i colpi alla porta.
— Signora, apra! Siamo della polizia! — aveva sentito gridare più volte dal
pianerottolo, fino a quando la mamma si era decisa ad aprire. Il cuscino che
Enrico stringeva sulla testa non gli aveva impedito, qualche istante dopo, di
sentire le voci alterate di entrambi i genitori, alle quali si sovrapponevano a
stento quelle di due poliziotti.
— Se non la piantate vi portiamo tutti e due al commissariato! — aveva
urlato un agente e finalmente mamma e papà si erano calmati, ma nessuno si era
affacciato alla porta della stanza a tranquillizzare Enrico. Pazienza i due
poliziotti, del tutto ignari della sua presenza, ma perché mamma e papà si erano
scordati di lui? Tanto più che quella, di solito, era l’ora di cena! Tutto
provava Enrico in quel momento tranne che appetito, ma da sempre il pasto serale
era un rito al quale erano presenti tutti e tre, anche se negli ultimi tempi
s’era trasformato in una specie di tumultuoso campo di battaglia e più di
qualche piatto aveva preso il volo finendo con uno schianto sul pavimento della
cucina.
Dopo l’energico intervento dei poliziotti, alle urla di mamma e papà s’era
sostituito un sordo mugugno ed Enrico aveva intuito che il padre stava facendo
le valigie. Era sul punto di andarsene per sempre e solo in quel momento il
ragazzo si rendeva conto che, mentre lui nascondeva la testa sotto il cuscino
come uno struzzo, la sua famiglia si stava disgregando.
All’epoca Enrico aveva
tredici anni ed era posseduto da una gran fretta di crescere. Sotto quel
cuscino, tuttavia, sopravviveva in lui un bambino che aveva ancora nel corpo e
nell’anima un gran bisogno di un padre e una madre. Uno dei due se ne stava
andando ed era come se gli strappassero metà dell’esistenza. Doveva uscire
dalla stanza e implorare papà di restare? Sarebbe stato inutile. Se nel cuore di
Enrico sopravviveva ancora una parte infantile, tuttavia era sufficientemente
cresciuto per rendersi conto che non avrebbe fatto altro che rendere più
drammatico il distacco. Papà e mamma avevano già dimostrato di tenere in
considerazione più i loro conflitti che le sue esigenze e non avrebbero
sicuramente cambiato idea. Tanto valeva rassegnarsi e continuare a tenere la
testa sotto il cuscino.
(...)
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