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da "L'enigma di  Őtzi" di Beppe Forti, Edizioni Tredieci, Oderzo (TV)

I - LA FONDAZIONE CASTELLI

In un bellissimo e ormai lontano giorno di settembre d’inizio secolo la scuola era finita prima del solito per uno sciopero o per un’assemblea, e dopo aver bighellonato per la città con i compagni, cominciai ad essere divorato da un prepotente ed urgentissimo appetito. Tornare a casa e trovare un bel piatto di pasta calda e fumante non sarebbe stato un problema per qualsiasi altro quattordicenne, com’ero io a quell’epoca, ma sfortunatamente non era il mio caso.
Non ricordo dove fosse mia madre in quel periodo, ma sicuramente non era dietro ai fornelli a preparare il pranzo ad un figlio che tornava da scuola, visto che per la maggior parte dell’anno era in giro a far concerti o ad incidere dischi.
Ancor meno avrei potuto trovarci mio padre, che se ne stava ormai da anni a fare astrusi calcoli matematici in una sperduta base antartica. A casa avrei trovato solo un frigorifero mostruosamente grande, ma quasi sempre altrettanto mostruosamente vuoto, dentro al quale c’era un’eco degna di una valle alpina, e molto spesso finivo per infilarmi dentro al più vicino MacDonald’s ordinando un doppio cheese-burger con patatine e una pinta gigante di Coca. Erano però quattro giorni che a pranzo mi cibavo di cheese-burger e patatine e cominciavo ad averne le scatole piene.
Visto che ero nei paraggi, non mi restava che la mensa della Fondazione Castelli nella quale lavoravano mia sorella Lucia e la Zia Margherita. Ad esserci sinceri non è che fosse il massimo come cucina, ma considerando le mie disastrate abitudini alimentari, un piatto di lasagne della fondazione era per il mio palato una leccornia d’alta gastronomia.
Appena entrai nell’atrio dell’edificio principale, al posto del solito portiere vidi una faccia nuova, un ragazzo che doveva avere più o meno l’età di mia sorella Lucia, ovvero undici anni più di me. La presenza di un quattordicenne sbracato, abbigliato con indumenti extra-large che gli cascavano da tutte le parti dovette sembrargli un po’ fuori posto all’interno di un’autorevole istituzione scientifica come quella.
- E tu chi sei? - mi chiese, infatti, squadrandomi da capo a piedi con una certa diffidenza.
- Sono Carlo, nipote della Prof.ssa Tagliapezzi e fratello della sua assistente - risposi con sussiego, pensando dentro di me “vediamo se questo ti basta, schiavo”!
- Scusami - si giustificò, ostinandosi a darmi del “tu”, mentre dopo avere sentito di che calibro era la mia parentela, avrebbe dovuto darmi come minimo dell’“eccellenza”! - Chi vuoi che ti chiami?
- Mia sorella, grazie - risposi io con sufficienza, ma vedendo che il ragazzo aveva una faccia simpatica, decisi d’essere magnanimo e democratico.
- Sei nuovo? - gli chiesi dopo che ebbe chiamato Lucia al telefono interno.
- Ho iniziato a lavorare qui da un paio di giorni... - mi rispose aprendo un sorriso bianchissimo a sessantaquattro denti.
Oltre ad avere un’espressione simpatica ed accattivante, quel giovanotto era anche un gran fico, mentre io a quei tempi non ero molto soddisfatto del mio aspetto. Non mi guardavo spesso allo specchio, e lo stato selvaggio della mia capigliatura lo poteva testimoniare, ma quando ero costretto a farlo, la perfida superficie riflettente mi restituiva ogni volta l’immagine di una specie di incrocio tra un essere umano di quattordici anni e un rospo, sgradevole e pieno di brufoli... o almeno così mi vedevo a quell’epoca!
- Quante probabilità ho di suscitare un po’ d’interesse da parte di una ragazza che sia almeno passabile? - chiedevo allo specchio, neanche fossi la regina di Biancaneve.
- Zero virgola zero zero periodico! - rispondeva ogni volta la mia immagine.
Il giovane portiere, invece, elegante nella sua uniforme scura, era alto, aveva capelli e occhi nerissimi e una barba corta e curata che gli incorniciava il volto. Insomma, ispirava simpatia a prima vista, anche se continuava poco rispettosamente a darmi del “tu”.
- Se devo essere sincero, però - mi confidò - non ho ancora capito di che cosa si occupi questa fondazione.
- Pretendi un po’ troppo - risposi - non lo sa quasi nemmeno chi ci lavora!
- Dicono che il suo fondatore, il commendator Guglielmo Castelli, abbia ammassato un’incalcolabile fortuna operando nel campo dell’informazione, dell’informatica e della multimedialità.  Tu l’hai mai visto? - mi chiese.
- No - dovetti ammettere - ma ho sentito dire che quando aveva soli trent’anni era già riuscito ad ammassare tanti di quei fantastiliardi da decidere di ritirarsi dagli affari e di dedicarsi interamente ai viaggi e all’esplorazione. C’è chi dice di averlo incontrato in Amazzonia, chi in Antartide e altri ancora dicono di averlo visto scalare le vette più alte del Tibet e dell’Himalaya.
- Qualcuno, però, avanza addirittura dei dubbi sulla sua esistenza, visto che non si fa mai vedere. Tu che ne dici? - mi chiese.
- Anch’io l’ho sentito - risposi. Una volta, infatti, avevo inteso mia zia esprimere il sospetto che quello di Castelli fosse solo un nome fittizio, dietro al quale doveva nascondersi qualche complicata catena di società multinazionali.
- Tua zia e tua sorella, però, non lavorano al piano di sopra con gli altri ricercatori... - osservò il portiere.
Era vero. Mia zia e mia sorella lavoravano in un’area sotterranea della fondazione, all’interno della quale pochissime persone erano ammesse. Più volte avevo chiesto che cosa combinassero dentro quel bunker, ma loro erano state sempre molto vaghe.
- Ti faremo visitare il laboratorio solo il giorno in cui ti prenderai una laurea in fisica, in astrofisica o in matematica - mi aveva risposto sbrigativamente la zia una volta in cui le avevo chiesto di portarmi con lei.
Considerato il mio scarso amore per gli studi, avrebbe fatto prima a dirmi di no e basta, senza bisogno di umiliarmi tanto proponendomi traguardi culturali che difficilmente avrei potuto raggiungere! La fascia più alta del quoziente intellettivo di famiglia, infatti, era già stata accaparrata da mio padre, da mia zia e da mia sorella e alla mia nascita non era rimasto granché. Io, infatti, ero l’unico ad aver preso dalla mamma che, se era geniale, lo era però a modo suo. Che cosa avessero da spartire un brillante matematico come mio padre e una scombinata cantante rock come mia madre, restò sempre un mistero per tutti e, forse, anche per loro stessi, considerato che se n’erano andati ognuno per conto proprio quand’ero ancora piccolo, lasciando per la maggior parte dell’anno me e mia sorella in custodia alla zia.
- Come mai tua zia e tua sorella spariscono ogni giorno nel sotterraneo? - ripeté il portiere, visto che, perso nei ricordi di famiglia, avevo lasciato cadere nel silenzio la sua osservazione. Era solo per curiosità che mi stava sottoponendo a quella specie d’interrogatorio di terzo grado? E se invece si fosse trattato di una spia? Non aveva l’aspetto dello zero-zero-sette, ma preferii ugualmente cambiare discorso. Anche volendo, avrei avuto ben poco da rivelargli!
- Ti piace il tuo nuovo lavoro? - gli chiesi.
- Sai com’è… - rispose, vagamente deluso del mio repentino cambio d’argomento. - Mi sono laureato da poco in scienze della comunicazione e sto frequentando una scuola di giornalismo, ma intanto devo pure campare in qualche modo!
In quel momento mia sorella Lucia uscì da un ascensore ed io notai subito in lei qualcosa di diverso. Il suo camice bianco era aperto sul davanti e lasciava vedere che sotto portava una minigonna e una maglietta attillata dai vivaci colori, mentre di solito vestiva maglioni informi e assurde gonne scozzesi che le arrivavano sotto il ginocchio. Non avevo mai considerato Lucia come un essere umano di sesso femminile oltre che come sorella, e non l’avrei considerata tale nemmeno in quel momento, se non mi fossi accorto che aveva sbirciato di sottecchi il giovane portiere, e quando il ragazzo l’aveva salutata con un deferente “Buongiorno, dottoressa”, lei era arrossita lievemente ed aveva risposto con un debole “Buongiorno”, aggiungendovi un timido sorriso. Dopo avere incrociato il mio sguardo, il rossore di Lucia era aumentato, come se l’avessi sorpresa con le dita nella nutella! Vuoi vedere, pensai, che anche un pezzo di ghiaccio come mia sorella può avere degli insospettabili risvolti umani?
- Vieni, Carletto? - mi chiamò avviandosi verso la mensa.
- Non mi hai detto come ti chiami - chiesi al giovane portiere prima di raggiungere mia sorella.
- Gianmaria - mi rispose lui senza staccare lo sguardo da Lucia. - Gianmaria Silvani... Gian per gli amici!
- “Dottor” Gianmaria Silvani, vorrai dire! - lo corressi.
- Beh, per quel che mi serve qui! - esclamò il ragazzo.
- Come mai hai chiamato “dottore” il nuovo portiere? - mi chiese Lucia appena ci fummo seduti a mangiare.
- Perché è laureato in scienze della comunicazione e sta frequentando una scuola di giornalismo - le spiegai.
- E qui che ci fa, allora? - mi chiese ancora lei.
- Dice che deve pure mangiare in qualche modo... - risposi. - Perché mi chiedi di lui? - le chiesi poi a bruciapelo - Ti piace?
- Oh, Carletto, cosa dici? - mi rimproverò Lucia arrossendo.
- Mi sembra un bel ragazzo! - osservai malizioso - Non trovi anche tu?
- Carletto, sei impossibile! - brontolò mia sorella - Mangia le lasagne, altrimenti si raffreddano!
Sarà stata una coincidenza, ma da quando Gianmaria Silvani aveva iniziato a lavorare alla fondazione, Lucia si alzava ogni mattina mezzora prima del solito, e quando usciva di casa era molto più curata nel vestire e aveva perfino un filo di trucco sul viso! Che mia sorella potesse essere anche bella non mi era mai passato per l’anticamera del cervello. Fino a quel momento era una sorella maggiore e basta, perché la bellezza non era contemplata nel mio personale concetto di sorella maggiore, e l’avevo sempre vissuta come una sbiadita rompiscatole con i capelli color della stoppa e con la faccia slavata come quella di un fantasma anemico!

(...)

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