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da "Malvenuti in America!" di Beppe Forti,
Storia di quando a migrare erano gli Italiani
Edizioni "Il Rubino", Napoli 2018

1

ADDIO PAPÀ...

— Mi dispiace, ragazzo, ma non credo che tuo padre riuscirà a passare la notte. Fatti forza... — sospirò il medico di bordo chiudendo la borsa e fu come se a Enzo avessero inferto un pugno allo stomaco. Era chiaro come l'acqua quello che il dottore aveva detto, eppure il ragazzo non poteva e non voleva crederci.
— Che... che vuol dire? — chiese balbettando.
— Che prima di mattina tuo padre se ne andrà — rispose il medico.
— Dove? — tornò a chiedere Enzo, continuando a rifiutare la cruda realtà. Il medico non riuscì a fare a meno di sorridere.
— Speriamo in Paradiso — rispose e il ragazzo si accasciò a terra.
Era notte fonda, ma erano ben pochi a dormire in quel vasto locale di terza classe che Saverio Mannino e il figlio Vincenzo, detto Enzo, condividevano assieme a un'altra cinquantina di povera gente, partita cinque giorni prima dal porto di Palermo con il miraggio di una vita migliore in America.
Attorno alla cuccetta a castello, sulla quale avevano trovato posto padre e figlio, si era creato il vuoto, come se quella di Saverio fosse una malattia contagiosa.
— Intossicazione alimentare — aveva dichiarato invece il medico, e il padre di Enzo non era stato l'unico a soffrirne. C'era qualcosa di avariato nel pasto che un paio di giorni prima era stato servito ai passeggeri di terza classe di quel vapore diretto a New York e la maggior parte di chi ne aveva sofferto se l'era cavata con un po' di dissenteria. Il malore si era aggravato solo per Saverio Mannino e i farmaci del medico di bordo si erano dimostrati del tutto inefficaci.
Mentre il poveretto si spegneva, dal locale attiguo arrivava indistinto un mormorio continuo nel quale, a intervalli regolari, a una singola voce femminile si aggiungevano quelle di una piccola folla. Erano le donne, ospitate in un dormitorio a parte, rigidamente separate dagli uomini, che avevano saputo delle condizioni disperate in cui si trovava il povero Saverio, e recitavano il rosario per lui.
Di lì a poco arrivò un prete, mandato forse dal medico, con una stola sulle spalle e un'ampolla tra le mani.
— Come si chiama tuo padre? — chiese a Enzo.
— Saverio... — sospirò il ragazzo.
— Saverio, ti vuoi confessare? — chiese il prete, ma l'uomo non rispose.
— Saverio, Saverio... — provò a insistere il religioso scuotendolo piano, ma l'unico segno di vita che provenne dall'infermo fu un flebile lamento.
— Non è cosciente... — sospirò il sacerdote e lo benedisse ugualmente con il Segno della Croce, recitando in latino la formula rituale dell'assoluzione: — Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.
— Bisogna fare presto — mormorò il religioso. Intinse le dita della mano destra sull'olio benedetto contenuto nell'ampolla e somministrò all'infermo il Sacramento dell'Estrema Unzione ungendogli fronte e mani.
— Ecco, è in grazia di Dio e può morire in pace — sospirò il sacerdote ed Enzo, se non fosse stato in preda alla più cupa disperazione, avrebbe sorriso al pensiero che il padre era tutt'altro che un uomo di chiesa. Il ragazzo ricordò la mamma, morta pure lei di malattia tre anni prima. Al contrario del marito, era una fervente cattolica e a niente erano servite le proteste di Saverio quando la moglie aveva preteso che il figlio frequentasse la Dottrina Cristiana e si accostasse ai sacramenti. All'idea di sua madre che, dal Cielo, aveva sicuramente assistito compiaciuta al salvataggio in extremis dell'anima del marito, anche a Enzo venne da sorridere, ma il padre si stava spegnendo e il ragazzo tornò a piombare nello sconforto, coprendosi il viso con i palmi delle mani.
— Enzo... Enzo... Enzo... — sentì implorare qualche istante dopo. Scoprì il volto e vide che papà Saverio, tornato cosciente, cercava di sollevarsi sui gomiti.
— Papà... — fece appena a tempo a mormorare il ragazzo, che il padre tornò a piombare disteso sulla cuccetta, trasse un profondo sospiro e restò immobile e con gli occhi sbarrati.
— Papà... — sussurrò Enzo. — Papà... papà... papà... — e continuò con un crescendo della voce che all'ultimo divenne un grido.
— Ebbasta! — protestò qualcuno dal fondo del dormitorio, ma Enzo nemmeno lo sentì. Scoppiò in un pianto dirotto e si gettò ad abbracciare il padre che un attimo prima aveva esalato l'ultimo respiro pronunciando il suo nome, quasi a chiedergli un estremo e inutile aiuto.
— Addio, papà... — mormorò Enzo tra le lacrime.

(...)

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