Capitolo
uno
LA GATTA NERINA
Nel
lontano 1509 nella città di Padova viveva una gatta di nome Nerina che aveva il
compito di tenere lontani i topi dal grano e dai sacchi di farina accumulati nel
magazzino del mugnaio Bortolo. Spesso, però, dalle pigre acque del fiume
Bacchiglione, che attraversava la città e muoveva le pale del mulino, uscivano
dei grossi topastri fulvi che nella parlata locale venivano chiamate pantegane.
Erano così enormi e minacciosi, che avrebbero fatto scappare non solo una
gattina bianca e nera di un anno e mezzo come Nerina, ma anche il glorioso leone
di San Marco, la cui immagine ornava gli stendardi rossi e gialli che
sventolavano sulle porte della città.
No, la caccia alle pantegane non era proprio cosa per lei, così Nerina
trovava molto meno pericoloso e senz'altro più divertente arrampicarsi sugli
spalti delle alte mura che circondavano Padova e che, a quanto sembra, nel loro
genere erano uniche in tutta Italia, se non in tutta Europa, sia per bellezza
che per robustezza. Esse erano ornate di merli e di torri lungo tutto il loro
perimetro ed avevano un'altezza tale da costituire non solo uno scenario
spettacolare per la città, ma anche un ostacolo insuperabile per i malcapitati
nemici ai quali fosse venuto in mente di provare a scalarle.
Nerina le apprezzava molto e amava scorrazzare allegramente lungo i
camminamenti saltando con noncuranza da un merlo all'altro e divertendosi a fare
la posta ai piccioni o a qualche passero distratto e sventurato.
— Perché quella gatta non fa il suo mestiere? — tuonava il mugnaio Bortolo,
che era un omone grande e grosso sui trentacinque anni, quando trovava i sacchi
di grano e di farina sventrati dalle pantegane
uscite dal fiume.
— Ma siòr pare (signor padre) — osava timidamente rispondere il figlio
Daniele, che aveva più o meno undici o dodici anni — è ancora piccola!
— Altro che piccola! — continuava il mugnaio — È solo una mangia-pane a
tradimento! Va a finire che la ficco in un sacco e la spedisco a mio cugino di
Vicenza, che se la mangi allo spiedo, al forno, alla brace, in salmì o come
diavolo preferisce!
— No, siòr pare — implorava con
le lacrime agli occhi Giustina, la sorellina di Daniele, che aveva sei anni e
che era molto affezionata alla gatta.
Bortolo sbraitava tanto, ma in realtà non diceva sul serio. Anche se a prima
vista sembrava un burbero omaccione, in fondo era buono come il pane. Nerina,
poi, era il giocattolo preferito dei suoi due figlioli, Giustina e Daniele, per
i quali l'omone stravedeva.
Anche i due ragazzi erano sempre stati i “giocattoli” preferiti di Nerina,
ma ormai la gatta non era più un batuffolo di pelo come quando era entrata per
la prima volta nel mulino e preferiva sempre più spesso andarsene per i fatti
propri.
— Oh... — diceva delusa Giustina — anche oggi Nerina se ne va... — e
restava a guardarla con il fratello mentre usciva da una finestra, saltava sul
tetto di una casa vicina, da questo su un altro e poi su quello di una
catapecchia addossata alla muraglia, per balzare su una ripida e stretta
scaletta, raggiungere il camminamento e sparire dietro alla grande torre che
sovrastava Ponte Molino.
(...)
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