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da "Il bastione della Gatta", di Beppe Forti,
Edizioni EEE-book, Torino 2018

Capitolo uno

LA GATTA NERINA

       Nel lontano 1509 nella città di Padova viveva una gatta di nome Nerina che aveva il compito di tenere lontani i topi dal grano e dai sacchi di farina accumulati nel magazzino del mugnaio Bortolo. Spesso, però, dalle pigre acque del fiume Bacchiglione, che attraversava la città e muoveva le pale del mulino, uscivano dei grossi topastri fulvi che nella parlata locale venivano chiamate pantegane. Erano così enormi e minacciosi, che avrebbero fatto scappare non solo una gattina bianca e nera di un anno e mezzo come Nerina, ma anche il glorioso leone di San Marco, la cui immagine ornava gli stendardi rossi e gialli che sventolavano sulle porte della città.
No, la caccia alle pantegane non era proprio cosa per lei, così Nerina trovava molto meno pericoloso e senz'altro più divertente arrampicarsi sugli spalti delle alte mura che circondavano Padova e che, a quanto sembra, nel loro genere erano uniche in tutta Italia, se non in tutta Europa, sia per bellezza che per robustezza. Esse erano ornate di merli e di torri lungo tutto il loro perimetro ed avevano un'altezza tale da costituire non solo uno scenario spettacolare per la città, ma anche un ostacolo insuperabile per i malcapitati nemici ai quali fosse venuto in mente di provare a scalarle.  Nerina le apprezzava molto e amava scorrazzare allegramente lungo i camminamenti saltando con noncuranza da un merlo all'altro e divertendosi a fare la posta ai piccioni o a qualche passero distratto e sventurato.
— Perché quella gatta non fa il suo mestiere? — tuonava il mugnaio Bortolo, che era un omone grande e grosso sui trentacinque anni, quando trovava i sacchi di grano e di farina sventrati dalle pantegane uscite dal fiume.
— Ma siòr pare  (signor padre) — osava timidamente rispondere il figlio Daniele, che aveva più o meno undici o dodici anni — è ancora piccola!
— Altro che piccola! — continuava il mugnaio — È solo una mangia-pane a tradimento! Va a finire che la ficco in un sacco e la spedisco a mio cugino di Vicenza, che se la mangi allo spiedo, al forno, alla brace, in salmì o come diavolo preferisce![1]
— No, siòr pare — implorava con le lacrime agli occhi Giustina, la sorellina di Daniele, che aveva sei anni e che era molto affezionata alla gatta.
Bortolo sbraitava tanto, ma in realtà non diceva sul serio. Anche se a prima vista sembrava un burbero omaccione, in fondo era buono come il pane. Nerina, poi, era il giocattolo preferito dei suoi due figlioli, Giustina e Daniele, per i quali l'omone stravedeva.
Anche i due ragazzi erano sempre stati i “giocattoli” preferiti di Nerina, ma ormai la gatta non era più un batuffolo di pelo come quando era entrata per la prima volta nel mulino e preferiva sempre più spesso andarsene per i fatti propri.
— Oh... — diceva delusa Giustina — anche oggi Nerina se ne va... — e restava a guardarla con il fratello mentre usciva da una finestra, saltava sul tetto di una casa vicina, da questo su un altro e poi su quello di una catapecchia addossata alla muraglia, per balzare su una ripida e stretta scaletta, raggiungere il camminamento e sparire dietro alla grande torre che sovrastava Ponte Molino.


[1]    L'allusione di Bortolo si riferisce alla diceria secondo la quale gli abitanti di Vicenza non disdegnerebbero di cibarsi di carne di gatto, cucinata allo stesso modo del coniglio, per cui essi vengono bonariamente canzonati dagli altri Veneti come “Vicentini Magnagatti”.

(...)

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