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da "Giovanni Battista Belzoni - Un avventuriero tra le dune" di Beppe Forti
Edizioni "inedibus", Vicenza
2014

UN PERSONAGGIO GIÀ VISTO

Sulla spianata davanti a me avanzava una schiera di un'ottantina di indigeni, chi a torso nudo, chi con una tunica corta e tutti con il turbante in testa. Le loro mani erano saldamente afferrate a spesse funi fissate alla base di una grande piattaforma di legno sulla quale era adagiato un enorme busto in granito scuro, assicurato alla struttura da robuste corde. La slitta scorreva su alcuni rulli di legno e man mano che gli indigeni riuscivano a farla avanzare di qualche metro, tirando le funi con enorme sforzo, altri si affrettavano a togliere i rulli da dietro precipitandosi a depositarli davanti, in modo che il prezioso carico procedesse sicuro verso la riva del fiume. Accanto a loro c'era un uomo dalla corporatura fuori del comune, un vero e proprio gigante alto più di due metri che correva qua e là spronandoli. Dalla descrizione che me ne aveva fatto Burckhardt non poteva essere che Belzoni in persona.
Le urla che avevo udito, e che mi avevano messo in allarme, non erano quelle di due tribù rivali impegnate in uno scontro, o in uno strano rito religioso, ma erano solo di incitamento, perché gli strattoni alle funi fossero dati nello stesso istante e risultassero più efficaci per spostare il pesantissimo carico.
Il busto di granito era molto bello e rappresentava un giovane faraone che sembrava guardare verso l'alto con un vago sorriso sulle labbra carnose, come se fosse contento di essere spostato da quella landa inospitale per essere trasferito in un luogo più adatto alla sua regale maestà.
Non ci misi molto a capire che mi trovavo di fronte al busto del Giovane Memnone e, considerando la distanza dal fiume, mi resi conto che Belzoni stava riuscendo nel suo intento. Osservai meglio la sua figura gigantesca che si agitava tanto, incitando ora gli indigeni che tiravano le funi, ora quelli che spostavano i rulli, aiutandoli lui stesso senza risparmiarsi e per qualche istante non potei credere ai miei occhi. Anche se erano passati più di tre anni da quando l'avevo incontrato la prima volta a Oxford, era difficile dimenticare un personaggio simile. Belzoni era proprio lui, il Sansone Patagonico che sollevava una dozzina di persone come fossero fuscelli. Era davvero imponente e vestiva alla maniera dei turchi, con dei larghi pantaloni trattenuti in vita da una fascia e una camicia dalle ampie maniche che un tempo doveva essere bianca. Si era fatto crescere la barba e in testa portava un turbante non molto diverso da quello dei suoi lavoranti.
C'era un'altra figura che correva avanti e indietro accanto a lui e anche se era abbigliata in panni maschili di foggia orientale, non ci misi molto a rendermi conto che si trattava di una donna europea dai capelli scuri che proteggeva la pelle candida del viso sotto un cappello di paglia a tesa larga. Aveva qualcosa di verdastro sulla spalla che per qualche istante scambiai per un ornamento ma, aguzzando gli occhi, mi accorsi che era una specie di grosso lucertolone, forse un camaleonte, che la donna portava con noncuranza, come fosse del tutto normale andarsene in giro con addosso una bestiaccia del genere. Doveva essere sicuramente Sarah, la moglie di Belzoni alla quale mi aveva accennato Burckhardt, che dimostrava davvero un gran coraggio per aver seguito il marito in quella terra martoriata dal sole e dalle guerre. Compresi di non avere più nulla da temere e mi alzai in piedi, aspettando il momento opportuno per avvicinarmi. Il cuore mi batteva forte, perché non avevo la più pallida idea di come sarei stato accolto.
Il gigante concesse ai suoi uomini una pausa che fu accolta da urla di giubilo. I lavoranti indigeni si sedettero a terra, mentre uno di loro passava tra le fila con un otre pieno d'acqua al quale si dissetavano con avidità. Decisi di farmi avanti e scesi dalla piccola altura, attirato soprattutto da quell'otre che veniva passato di mano in mano. Fu Sarah a vedermi per prima e mi indicò a Belzoni che si girò incuriosito, mentre io avanzavo incerto, tirandomi dietro la mia pesante borsa.
«Who are you?» mi chiese osservandomi perplesso quando gli fui davanti, mentre si detergeva il sudore dalla fronte, dal viso e dal collo con un fazzolettone rosso.
«Mi chiamo Alvise Zorzi e ho qui per voi una lettera del vostro amico Johann Ludwig Burckhardt» gli risposi timoroso in italiano, porgendogli il plico.
«Alvise Zorzi...» mormorò il gigante, mentre strappava il sigillo della lettera e l'apriva. «Seu Venessian?»
Nel sentire porgermi quella domanda nella lingua dei miei genitori mi si aprì il cuore, anche se la cadenza con cui mi era stata posta era un po' diversa dalla loro.
«Me pare e me mare xera de Venessia — gli risposi. — Mi, però, so' nato al Cairo quìndese ani fa. Ma vù, sior Belzoni, vù parlè venessian?»
«So' nato a Padova nel '78...» rispose, mentre scorreva velocemente la lettera di Burckhardt.
«Eh, caro Alvise — sospirò dopo averla letta. — Avrei sì bisogno di qualcuno che mi desse una mano, specialmente da quando James, il ragazzo irlandese che era al mio servizio, si è ammalato ed è tornato al Cairo... ma mi no gò tanti bessi par pagarve... non ho molti soldi per pagarvi, voglio dire. Però se vi accontentate di vitto, alloggio e qualche mancia ogni tanto...»
Cosa avrei potuto sperare di più? Temevo un rifiuto e invece ero accolto a braccia aperte.
«Se a voi sta bene, sta bene anche a me.»
«E allora... benvenuto nella famiglia Belzoni!» esclamò lui, tendendomi la mano.

(...)

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