UN PERSONAGGIO GIÀ VISTO
Sulla spianata davanti a me avanzava una schiera di
un'ottantina di indigeni, chi a torso nudo, chi con una tunica corta e tutti con
il turbante in testa. Le loro mani erano saldamente afferrate a spesse funi
fissate alla base di una grande piattaforma di legno sulla quale era adagiato un
enorme busto in granito scuro, assicurato alla struttura da robuste corde. La
slitta scorreva su alcuni rulli di legno e man mano che gli indigeni riuscivano
a farla avanzare di qualche metro, tirando le funi con enorme sforzo, altri si
affrettavano a togliere i rulli da dietro precipitandosi a depositarli davanti,
in modo che il prezioso carico procedesse sicuro verso la riva del fiume.
Accanto a loro c'era un uomo dalla corporatura fuori del comune, un vero e
proprio gigante alto più di due metri che correva qua e là spronandoli. Dalla
descrizione che me ne aveva fatto Burckhardt non poteva essere che Belzoni in
persona.
Le urla che avevo udito, e che mi avevano messo in allarme, non erano quelle di
due tribù rivali impegnate in uno scontro, o in uno strano rito religioso, ma
erano solo di incitamento, perché gli strattoni alle funi fossero dati nello
stesso istante e risultassero più efficaci per spostare il pesantissimo carico.
Il busto di granito era molto bello e rappresentava un giovane faraone che
sembrava guardare verso l'alto con un vago sorriso sulle labbra carnose, come se
fosse contento di essere spostato da quella landa inospitale per essere
trasferito in un luogo più adatto alla sua regale maestà.
Non ci misi molto a capire che mi trovavo di fronte al busto del Giovane
Memnone e, considerando la distanza dal fiume, mi resi conto che Belzoni
stava riuscendo nel suo intento. Osservai meglio la sua figura gigantesca che si
agitava tanto, incitando ora gli indigeni che tiravano le funi, ora quelli che
spostavano i rulli, aiutandoli lui stesso senza risparmiarsi e per qualche
istante non potei credere ai miei occhi. Anche se erano passati più di tre anni
da quando l'avevo incontrato la prima volta a Oxford, era difficile dimenticare
un personaggio simile. Belzoni era proprio lui, il Sansone Patagonico che
sollevava una dozzina di persone come fossero fuscelli. Era davvero
imponente e vestiva alla maniera dei turchi, con dei larghi pantaloni trattenuti
in vita da una fascia e una camicia dalle ampie maniche che un tempo doveva
essere bianca. Si era fatto crescere la barba e in testa portava un turbante non
molto diverso da quello dei suoi lavoranti.
C'era un'altra figura che correva avanti e indietro accanto a lui e anche se era
abbigliata in panni maschili di foggia orientale, non ci misi molto a rendermi
conto che si trattava di una donna europea dai capelli scuri che proteggeva la
pelle candida del viso sotto un cappello di paglia a tesa larga. Aveva qualcosa
di verdastro sulla spalla che per qualche istante scambiai per un ornamento ma,
aguzzando gli occhi, mi accorsi che era una specie di grosso lucertolone, forse
un camaleonte, che la donna portava con noncuranza, come fosse del tutto normale
andarsene in giro con addosso una bestiaccia del genere. Doveva essere
sicuramente Sarah, la moglie di Belzoni alla quale mi aveva accennato Burckhardt,
che dimostrava davvero un gran coraggio per aver seguito il marito in quella
terra martoriata dal sole e dalle guerre. Compresi di non avere più nulla da
temere e mi alzai in piedi, aspettando il momento opportuno per avvicinarmi. Il
cuore mi batteva forte, perché non avevo la più pallida idea di come sarei
stato accolto.
Il gigante concesse ai suoi uomini una pausa che fu accolta da urla di giubilo.
I lavoranti indigeni si sedettero a terra, mentre uno di loro passava tra le
fila con un otre pieno d'acqua al quale si dissetavano con avidità. Decisi di
farmi avanti e scesi dalla piccola altura, attirato soprattutto da quell'otre
che veniva passato di mano in mano. Fu Sarah a vedermi per prima e mi indicò a
Belzoni che si girò incuriosito, mentre io avanzavo incerto, tirandomi dietro
la mia pesante borsa.
«Who are you?» mi chiese osservandomi perplesso
quando gli fui davanti, mentre si detergeva il sudore dalla fronte, dal viso e
dal collo con un fazzolettone rosso.
«Mi chiamo Alvise Zorzi e ho qui per voi una lettera del
vostro amico Johann Ludwig Burckhardt» gli risposi timoroso in italiano,
porgendogli il plico.
«Alvise Zorzi...» mormorò il gigante, mentre strappava
il sigillo della lettera e l'apriva. «Seu Venessian?»
Nel sentire porgermi quella domanda nella lingua dei miei genitori mi si
aprì il cuore, anche se la cadenza con cui mi era stata posta era un po'
diversa dalla loro.
«Me pare e me mare xera de Venessia — gli risposi. — Mi, però,
so' nato al Cairo quìndese ani fa. Ma vù, sior Belzoni, vù parlè venessian?»
«So' nato a Padova nel '78...» rispose, mentre
scorreva velocemente la lettera di Burckhardt.
«Eh, caro Alvise — sospirò dopo averla letta. —
Avrei sì bisogno di qualcuno che mi desse una mano, specialmente da quando
James, il ragazzo irlandese che era al mio servizio, si è ammalato ed è
tornato al Cairo... ma mi no gò tanti bessi par pagarve... non ho molti
soldi per pagarvi, voglio dire. Però se vi accontentate di vitto, alloggio e
qualche mancia ogni tanto...»
Cosa avrei potuto sperare di più? Temevo un rifiuto e
invece ero accolto a braccia aperte.
«Se a voi sta bene, sta bene anche a me.»
«E allora... benvenuto nella famiglia Belzoni!»
esclamò lui, tendendomi la mano.
(...)
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